Lucca Underground Festival Contest 2015
“The great artist of tomorrow will go underground” (Marchel Duchamp, Filadelfia, 1961)
FUGA
DALLA VENDETTA
di
Liana Onofri
Terzo
classificato
LUCCA UNDERGROUND FESTIVAL CONTEST 2015
Non ho raccontato questa storia a nessuno per molti anni. Non riuscivo a spiegarne il mistero e pensavo che la gente non mi avrebbe mai creduto. Ma ora non m’importa niente del giudizio delle persone, perché so di raccontare soltanto la verità.
Arrivai per caso in quel luogo in mezzo alla campagna. Mi ero persa mentre stavo andando dalla mia amica Gianna che possedeva una tenuta in Maremma. Fermai la macchina su quella strada solitaria. Il sole tingeva di un’ambra dorato le colline circostanti e il profumo intenso del rosmarino e dell’elicrisio penetrava prepotentemente nelle mie narici. In lontananza un grosso casolare abbandonato interrompeva quella splendida monotonia di colline. Mi avvicinai alla casa, una vecchia dimora fatiscente con una rigogliosa quercia secolare che ne restituiva il ricordo di un signorile passato. Uno sbiadito cartello “vendesi” appeso cancello. Non fu facile convincere la mia famiglia della necessità di acquistare il casolare, ma la fortuna mi dette una mano: la decisione di spostarci da Firenze arrivò dopo la sospensione dalla scuola di nostro figlio Marco, per l’ennesima rissa con un compagno finita a pugni e calci. Era il 1980, non avevamo molti soldi ma mio marito mise a disposizione una vecchia casa di Milano, lasciata in eredità dal padre, e con il ricavato della vendita comprammo “La Vendetta”, così si chiamava la proprietà. Marco rimase con il muso lungo per molti giorni. Luca faceva il giornalista e lavorava spesso a casa. Io avevo un modesto impiego in Comune a Firenze e presi qualche mese di aspettativa in attesa del trasferimento in una sede più vicina.
Il casolare aveva un piccolo giardino di fronte all’ingresso, quasi interamente occupato dalla possente quercia, e una lunga distesa di campi, con alberi da frutta e fiori. Durante la primavera e l’estate di quell’anno lavorammo duramente. La casa era stata chiusa per molto tempo e l’intrigo di rovi e di erbacce infestava gran parte della facciata. Il suo aspetto dimesso la rendeva cupa e inquietante. Così riportammo a uno stato decente gli alberi e piantammo nuovi fiori per ridare vita a quel luogo dimenticato.
L’autunno era ormai alle porte. Ricordo bene quel giorno. Avevamo finito tardi il nostro lavoro. In lontananza all’orizzonte nuvole nere si addensavano nel cielo ancora in parte limpido e grosse folate di vento alzavano mulinelli di foglie cadute dai rami. Marco era inchiodato alla finestra della cucina, in attesa di un uragano che avrebbe messo fine a quella noia insopportabile. Luca era indaffarato a riporre con cura i suoi attrezzi ed io giravo per casa nella speranza che si placasse quel maledetto vento. Avevo una strana inquietudine e, per la prima volta, rimpiansi il mio vecchio appartamento fiorentino al quarto piano, racchiuso dalle mura di altre case di altre persone. Stavo apparecchiando la tavola quando mancò la luce. “Tranquilli” disse Luca con voce ferma. “Vado a cercare le candele ” Poi s’interruppe tutto, nella realtà e nella mia testa. Si aprì violentemente una porta e fui sbattuta in terra da un forte vento che mi trascinò al lato opposto della stanza. Chiamai Marco ma non ebbi risposta . Poi mi colpì un potente getto d’acqua. Uno scroscio d’acqua che invase la stanza. Cercavo qualcuno tra un bagliore e l’altro dei fulmini, ma non riuscivo a orientarmi. Poi, in un momento di chiarore, mi apparve nitida un’immagine dietro la finestra di cucina. Un vecchio, deforme, con gli occhi strabuzzati e la lingua rossa penzoloni, un viso gonfio e putrefatto, con una corda al collo, appeso ad un ramo della quercia accanto alla casa .Ondeggiava da una parte all’altra per la furia del vento, e sbatteva sulla finestra lasciando uscire ogni volta dal suo corpo strani umori neri. Ero all’interno ma sentivo l’odore nauseabondo della morte. Urlai con tutto il fiato che avevo in corpo, poi crollai e svenni.
Il buio lasciò finalmente posto alla debole luce dell’alba, portandosi via la follia di quella notte. Avevo un forte dolore alla gamba e alla spalla e facevo fatica ad alzarmi. Con lo sguardo raggiunsi però tutta la stanza, senza trovare tracce di Marco e di Luca. Poi un rumore sospetto dal salotto attirò la mia attenzione ma il ricordo della faccia di quell’uomo dietro al vetro mi costrinse a stare ferma. Ascoltai un flebile lamento e un respiro affannoso. A stento mi sollevai in piedi e mi avvicinai al salotto. Sul divano erano riversi Luca e Marco. Respiravano e stavano bene. Erano soltanto tramortiti dai colpi infernali dell’uragano. Ci abbracciammo tutti e tre ma mi accorsi presto che né
l’uno né l’altro aveva avuto quella terrificante visione. Mio figlio e mio marito ricordavano solo un violento temporale.
Nei giorni seguenti non ne feci parola con nessuno e cominciai a pensare che tutto fosse frutto di un’ incontrollata paura.
Un pomeriggio di ottobre un uomo sulla cinquantina ci apparve all’improvviso sul retro della casa. Si chiamava Antonio Lotti. Era un contadino e abitava non molto distante da noi.
“Mia moglie ed io siamo felici che siate venuti a vivere qui. Questa casa era disabitata da troppo tempo. Mi chiedevo se il temporale dell’altra notte vi avesse causato qualche danno” Disse l’uomo gentilmente mentre osservava la reazione nei nostri volti.
Ringraziai con cortesia porgendo a Luca gli attrezzi per terminare i nostri lavori in giardino, cercando di non far trasparire la mia ansia nel ricordo della notte passata.
“ Grazie Antonio, abbiamo subìto qualche danno al tetto ” disse Luca in tono confidenziale “ E stavo pensando di tagliare questo albero troppo vicino alla casa, cosa ne pensi?” A quella banale domanda Antonio si rabbuiò, per un po’ rimase senza parole , poi disse che si era fatto tardi e doveva rientrare a casa. “Strana questa gente” pensò Luca riprendendo i suoi lavori di giardinaggio. “ Domani farò in modo di segare a pezzi questa quercia.”
Pensai alla reazione di Antonio e non potei non ricollegarla a quell’uomo appeso al ramo. Non ero sicura di aver visto un fantasma quella notte, ma se non era un fantasma allora cosa avevo visto?! Sentivo che c’era un collegamento tra quell’albero e le mie visioni.
Squillò il telefono. Il grande capo di Luca lo richiamava in sede per un incarico urgente a Milano. Così l’albero rimase al suo posto. Marco mi supplicò di mandarlo con il padre in città, dove sarebbe stato con i nonni per qualche giorno. Non mi
piaceva rimanere da sola ma la mia razionalità cercava di cancellare dalla testa tutte quelle immagini.
Fu così che mi ritrovai nella casa dei miei sogni da sola, con la speranza di rimanere serena fino al ritorno dei miei. Lavorai molto, in casa e fuori, e riuscii a godermi belle serate sul divano con i miei libri preferiti che, per una volta, trovai il tempo di leggere. Poi accadde tutto come allora e tornò l’ incubo infernale. Una notte, il vento, solo quello, ma forte violento e rumoroso, entrò nella mia casa e nella mia testa. Cominciai a chiudere le finestre ma sapevo che in cucina avrei trovato la solita spiacevole sorpresa. Era lì, con la faccia deformata e una smorfia disgustosa accanto alla bocca spalancata e senza denti e quel collo allungato dalla fune che ancora lo stringeva. Mi allontanai dalla finestra e corsi come una pazza per le stanze della casa. Caddi per terra e pensai che sarei morta di paura entro pochi secondi. Poi un pensiero s’ insinuò tra le pieghe della mia mente stanca. Un pensiero preciso. Un pensiero che si faceva strada con decisione. Con gli occhi mezzi chiusi dalla paura ma pieni di odio, andai fuori. Il vento mi respingeva ma io ero determinata a compiere quell’atto feroce che mi avrebbe liberato. Poi una forte folata spinse quel corpo mollo su di me. Un odore di cadavere putrefatto mi strinse la gola, vomitai tutto quello che avevo in corpo e anche quello che non avevo. Vomitai la paura, il ribrezzo e l’odio per quello che mi stava succedendo. Presi la sega. Con forza mi liberai di tutti i rami dell’albero. Sentii poi un tonfo, il corpo non c’era più. Accanto al mio piede solo una corda.
Nei primi anni del 1920 in quella grande casa colonica viveva un signore anziano di buona famiglia con un maggiordomo. Una sera, una di quelle sere ventose, arrivò una banda di ladri con l’intenzione di derubare il vecchio e di ucciderlo. Il fedele maggiordomo cercò di difendere invano il suo padrone, ma gli uomini del paese ritennero lui il colpevole e, in una notte di tempesta, lo giustiziarono appendendolo alla quercia della tenuta.
Oggi siamo di nuovo a Firenze. Ci siamo ricomprati il vecchio appartamento. Nelle sere di temporale Luca non riesce ancora a spiegarsi come mai Jack, il nostro cane, abbai a quella strana corda appesa in cucina.