Lucca Underground Festival Contest 2015 

 “The great artist of tomorrow will go underground” (Marchel Duchamp, Filadelfia, 1961)


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L’APPARENZA INGANNA

di Carla Strippoli

Primo classificato

LUCCA UNDERGROUND FESTIVAL CONTEST 2015

Dwayne riuscì a muovere i primi, incerti e traballanti passi solo due ore dopo essere uscito dalla tomba.

La faccenda gli apparve inizialmente piuttosto buffa, poiché gli sembrava di essersi quasi dimenticato come si facesse a mettersi in piedi. Del resto, sdraiato sul soffice giaciglio dell’imbottitura si sentiva comodo e a suo agio, e ci sarebbe rimasto volentieri per tutta l’eternità; senonché qualcosa gli diceva di alzarsi da lì e, seppure a malincuore, Dwayne tentò di ubbidire a quell’impulso.

Dopo numerosi quanto infruttuosi tentativi, visto che proprio non gli tornava in mente come fare, decise di rivolgere la sua attenzione ad altro, per poi riprovare in seguito.

Guardò dunque verso il basso, in direzione della mano destra, e la trovò davvero interessante: chissà a cosa serviva quell’aggeggio attaccato al suo braccio, si stupì. Mosse piano le dita, e per quasi dieci minuti restò come ipnotizzato dai loro deboli fremiti tremolanti. Poi passò a contemplare la sinistra, e notò che era quasi uguale all’altra, con le stesse profonde scorticature dovute al gran scavare nel quale si era inconsapevolmente prodotto fino a poco prima; l’unica differenza tra le due mani consisteva nella mancanza di un dito, precisamente l’anulare, che si era già fratturato nell’incidente in cui era morto un mese prima e che quindi non aveva retto al contatto con il pessimo legno della bara economica. Ora giaceva nella buca come un würstel andato a male.

Tutto il suo corpo puzzava come un bidone della spazzatura lasciato sotto il sole di Ferragosto, ma Dwayne non era nemmeno vagamente disgustato di se stesso. Riconosceva senza dubbio di essere parecchio sporco di terra, ma il suo olfatto non era più in grado di percepire il tanfo nauseante che emanava. Non poteva sapere di essere praticamente putrefatto: non si rendeva conto di essere morto.

Seduto nel camposanto, Dwayne aveva capito solo per sommi capi cosa gli era accaduto, ma il motivo per il quale si trovasse alla luce della luna piuttosto che nella confortevole oscurità della fossa gli era ignoto. Fino a poco meno di un’ora prima era comodamente steso nella sua bara imbottita di raso viola, e ad un tratto una forza misteriosa lo aveva costretto a muoversi e a cercare di liberarsi da quella che era stato un comodo giaciglio ed improvvisamente era invece diventata una stretta prigione.

Nell’attesa di capire in che modo avrebbe potuto alzarsi, iniziò a ricordare vagamente il suo incidente.

Joey e Paul, i suoi migliori amici, si erano salvati, anche se sarebbero completamente guariti solo dopo molto tempo e molte cure riabilitative, mentre lui aveva battuto la testa sul cruscotto, e il risultato era evidente, anche se lui non ne era consapevole: era morto, stecchito, defunto, schiattato. Poi lo avevano seppellito in quel cimitero, ma anche questo non lo ricordava. La memoria degli avvenimenti precedenti si fermava al momento dello schianto. Da allora, e fino al suo strano e involontario risveglio, il buio più assoluto. Gli pareva solo di rammentare un senso di pace mai provato prima, ma non poteva esserne certo. L’unica certezza di Dwayne era il fatto di trovarsi seduto in un cimitero senza sapere perché, e che qualcosa gli suggeriva di alzarsi e andarsene. Non poteva importargli altro, perché non aveva più le facoltà per capire di essere in uno stato di decomposizione da fare schifo, di essere diventato uno zombie come quelli che si vedono barcollare come ubriachi nei films. Dwayne adorava quel genere di pellicole un po’ splatter: aveva diciassette anni ed erano state il suo pane quotidiano, prima di morire. Ma, dopo il decesso, le sue facoltà mentali, peraltro non eccelse nemmeno in vita, si erano irrimediabilmente deteriorate. Neanche ricordava più cosa fosse, uno zombie. Non avrebbe mai potuto definirsi un “morto vivente”: era lì, seduto a pensare, pur se con fatica, e a muoversi, anche se con grande difficoltà, e questo era sufficiente a farlo sentire vivo quanto lo era prima dell’incidente. Non si poneva nessuna domanda, non aveva dubbi né interrogativi su cosa gli stesse capitando.

Finalmente riuscì a mettersi in piedi. Sentiva che l’unica cosa giusta da fare era tornare a casa. Là c’era qualcuno ad aspettarlo... ma chi? Con un grosso sforzo, la parte del suo cervello che non si era sfracellata sul cruscotto gli rimandò l’immagine di una donna dall’aria stanca, afflitta e spesso in lacrime, una donna che sentiva di aver amato, anche se in quel momento non provava nulla in particolare. Era una donna con uno strano nome uguale a quello di milioni di altre donne come lei, che aveva un significato speciale...

Mmm... Mmo... mma... Mamma! Sì, mamma! esultò Dwayne quando gli sovvenne... ma cosa voleva dire? Non se lo ricordava, però il suono gli piaceva, così tentò di dirlo a voce alta. Un lamento agghiacciante uscì dalle sue labbra bluastre che non sembravano più capaci di articolare un suono comprensibile.

Dwayne non se ne preoccupò: più tardi ci avrebbe riprovato, ma ora quello che doveva fare era andare dalla signora chiamata mamma e dirle che era tornato per stare con lei; era sicuro che l’avrebbe resa felice e non avrebbe più pianto. Quello che Dwayne non ricordava era il motivo per il quale sua madre piangeva così spesso, e cioè proprio lui: in vita, era stato uno sfaticato, semi-alcolizzato e delinquente in erba, interessato soprattutto a mettersi nei guai il più spesso possibile e a trascorrere le sue giornate con altri ragazzi senza scopi nella vita. Due anni prima aveva lasciato la scuola e non aveva mai pensato ad aiutare sua madre che, vedova e con altri tre figli più piccoli, doveva lavorare anche di notte per mantenere la famiglia. Ma ora, pur non ricordando nulla di tutta la sua vita passata, pensare alla mamma gli faceva provare una sensazione languida alla bocca dello stomaco, una specie di rivolgimento interno che gli faceva venire l’acquolina in bocca.

Dwayne non aveva riconosciuto in quei sintomi lo stimolo della fame: l’unica sensazione che l’immagine di sua madre gli procurava in realtà era un forte appetito di cervello umano. Di viscere. Succulenti intestini da mordere. Questo lo spinse ad affrettarsi, barcollando incerto sulla gambe malferme: non vedeva l’ora di abbracciare sua madre e di darle un morso affettuoso sulla testa. Dwayne iniziò suo malgrado a sbavare, continuando a mettere un piede davanti all’altro con attenzione per non

inciampare. Il cancello del cimitero non era lontano, ancora qualche passo e l’avrebbe raggiunto.

Fu un lieve fruscio a farlo voltare quasi di scatto, per quanto i suoi legamenti ancora glielo permettevano. La prima cosa che vide fu la canna di un fucile puntata diritta alla sua testa. Dietro di essa scorse Horace Latt, il vecchio custode del cimitero. Dwayne tentò debolmente di dirgli qualcosa, pur spaventato e confuso, ma dalla sua bocca marcita provennero gli stessi lamentosi grugniti senza senso di poco prima.

Il custode fece un ghigno disgustato. La sua dentiera comprata per corrispondenza brillò nel buio. Armò il fucile e sparò. Il colpo fu forte e riecheggiò nell’aria coprendo in parte il tonfo secco della salma di Dwayne che cadeva sul prato. Con qualche calcio ben assestato, Horace Latt lo spinse fino alla sua fossa, ove lo ributtò. Con una pala cominciò a riempire nuovamente la buca, borbottando con risentimento.

«L’inquinamento... è colpa di quelle maledette industrie... è già il terzo, questa settimana!». Poi, fischiettando con ritmo una marcia funebre, tornò a guardare alla TV il film horror del venerdì notte.